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lunedì 8 marzo 2010

A FALLUJA, “CITTÀ MARTIRE” DELL’IRAQ LA LOTTA CONTINUA SENZA ARMI

  Dopo i raid Usa, la popolazione ora pensa alla politica

di Barbara Schiavulli
  

Falluja - E' ancora una delle strade più pericolose al mondo. Una lingua di terra che si lascia la confusione di Bagdad alle spalle per perdersi verso est incontrando prima la prigione di Abu Ghraib, con ancora gli spettri dei detenuti torturati e umiliati dai militari americani. Si corre verso la provincia di Al Anbar, la roccaforte della militanza sunnita e di Al Qaeda. Sbocco naturale da chi entrava dalla Giordania per passare attraverso Falluja. È qui che hanno rapito giornalisti, intellettuali, ricchi iracheni. È qui che hanno decapitato nel 2006 tutta la squadra di nazionale di taekwondo irachena. È qui che si sono combattuti due dei più feroci assedi lanciati dagli americani tanti morti che venivano seppelliti nello stadio, mentre centinaia di giovani finivano dietro le sbarre delle pericolose prigioni irachene.   Migliaia le persone fuggite e centinaia quando sono ritornate hanno trovato le case distrutte o occupate. I ragazzi imbracciavano i fucili e combattevano e gli anziani gli incitavano. Più gli americani attaccavano, più gli iracheni reagivano e permettevano ai militanti di al Qaeda di intrufolarsi. Fino a quando qualcuno tra i leader tribali ha capito che a morire erano sempre e soprattutto gli iracheni. Il Consiglio   per il Risveglio, fu un'idea del generale Petraeus, comandante delle forze armate americane. Trovò i soldi per pagare i ragazzi che combattevano per avere uno stipendio, e li porto dalla parte del governo. L'idea ebbe fortuna e funzionò.    Cinque anni dopo le elezioni del 2005 alle quali i partiti sunniti non parteciparono, ora a Falluja c'è un'atmosfera diversa. La strada è punteggiata di posti di blocco che sembrano frontiere, presidiate da soldati iracheni che controllano la macchina, tutti con l'indice macchiato d'inchiostro, perché i militari hanno votato due giorni fa. Guardano i documenti, scambiano due parole, aprono i bagagliai e inesorabilmente chiedono "avete armi?".   Alla vista delle prime case la città si anima, colorata dai poster dei candidati che lanciano messaggi di speranza. Non ci sono le facce del premier sciita al Maliki o di altri sciiti, è la terra di quei sunniti che ancora credono che con Saddam si stesse meglio. Ora invece arrancano. Falluja mostra le rovine di palazzi colpiti dai missili, i muri bucherellati dalle armi automatiche, ma ci sono anche tante case nuove e negozi dalle insegne colorate.    "Molti dei nostri candidati sono stati esclusi dalle elezioni, ma questa volta andremo a votare", ci dice Nawaf Jabar, un insegnante, versando il tè nella sua casa accogliente, "è finito il tempo   di combattere con le armi. A Falluja si sta ancora male, abbiamo due ore al giorno di elettricità, mentre con Saddam non avevamo alcun problema. Ma voglio essere ottimista, abbiamo buoni candidati". Uno di loro è l'ex premier Allawi, sciita ma che ha impostato la sua coalizione mista inglobando tutte le etnie. La partecipazione dei sunniti alle elezioni è importante perché più si legano alla politica più è possibile che la violenza si riduca.    "Ho combattuto, lo ammetto, e sono stato arrestato due volte dagli americani. Mi hanno interrogato, picchiato e alla fine mi hanno fatto uscire perché non avevano prove. Mio fratello è stato ucciso da loro. Allora non potevamo non combattere, avreste fatto lo stesso, abbiamo lasciato il nostro lavoro e imbracciato le armi", ci racconta Yasser 26 enne, che ora fa qualche lavoretto di giornata. Ha qualcosa di triste e indecifrabile nello sguardo, come se la rabbia   gli ribollisse ancora dentro. "La seconda volta che mi hanno arrestato, sono venuti a prendermi a casa, hanno buttato giù la porta di notte, terrorizzato la mia famiglia, mi hanno trascinato in mutande fuori insieme ad altri 85 ragazzi. Non sono cose che si dimenticano. Ma ora voglio solo che la mia famiglia stia bene".    Haifa sbuffa, una signora di 40   anni grassottella con 4 bambini che le gironzolano intorno, ha perso cinque persone della sua famiglia durante la guerra. "Andrò a votare un candidato sunnita, ma se tornano gli americani, vado a combattere anche io, i miei bambini hanno ancora paura quando sentono un temporale, se ne stanno impietriti fino a che smette. Qui c'è stato l'inferno, non c'è nessuno che non abbia avuto un morto in casa, ci manca ancora tutto, lo Stato non ci aiuta, nel quartiere di Julan nascono   bambini deformati, non so che armi abbiano usato gli americani, ma sono cose tremende". Non si può restare troppo a Falluja - anche per via del minaccioso coprifuoco proclamato ieri da Al Qaeda - e quell'ora che la divide da Bagdad sembra molto più lunga. All'ultimo posto di blocco prima di rientrare nella capitale ci sono gli americani. Quando tornate a casa? "Speriamo presto – risponde un biondino – speriamo presto".

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