Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma sulla prima ho ancora qualche dubbio.

Sito denuclearizzato

MOVIMENTO A 5 STELLE

stellina.jpg
Ambiente

Maurizio Pallante
stellina.jpg
Acqua

Riccardo Petrella
stellina.jpg
Sviluppo

Matteo Incerti
stellina.jpg
Connettività

Maurizio Gotta
stellina.jpg
Trasporti

Beppe Grillo


domenica 18 settembre 2011

TALPE NEL PALAZZO

Talpe nel palazzo

 

di Paolo Biondai,

L'Espresso - 16 settembre 2011

 

Talpe nel palazzo

 

La maxi-inchiesta sulla 'ndrangheta lombarda è ancora segretissima, quando una squadra di carabinieri dell'antimafia riesce a nascondere una telecamera di fronte alla villa di un capoclan. 

 

 

I pm milanesi vogliono scoprire (e poter documentare) chi incontra. La missione è difficile: l'inquisito per mafia, ufficialmente imprenditore, è molto guardingo, si circonda di collaboratori- sentinelle e abita in una via di Giussano, nella popolosissima Brianza, dove è difficile passare inosservati. 

Per giorni i militari si fingono operai al lavoro per strada e finalmente piazzano la telecamera in cima a un lampione. 

Il 20 gennaio 2009 le immagini cominciano ad essere registrate nella vicina stazione dell'Arma di Seregno. Ma appena sei giorni dopo, l'inchiesta è bruciata. Un complice avverte il mafioso di aver ricevuto «un'ambasciata dallo sbirro». Una soffiata precisissima: la descrizione esatta dell'inquadratura che arriva sul monitor dei militari. 

Un'immagine che può essere vista solo dall'interno della caserma. Da un traditore dello Stato. E dei tanti carabinieri onesti che rischiano la vita per poco più di mille euro al mese. Un anno e mezzo dopo, nel luglio 2010, quando scatta la storica retata con trecento arresti tra Milano e la Calabria, anche i presunti mafiosi brianzoli finiscono in manette, incastrati da altre microspie. 

Ma la talpa in divisa resta tuttora senza nome. Insieme a troppi altri uomini dello Stato passati al servizio dell'Antistato. Al Sud come nell'insospettato Nord. "L'Espresso" nello scorso numero ha raccontato come l'emissario della cosiddetta P3 si è presentato dal procuratore aggiunto di Milano, Nicola Cerrato, cercando di carpire informazioni sull'inchiesta contro la 'ndrangheta: Pasqualino Lombardi voleva sapere se fossero indagati cinque politici del Pdl lombardo e domandò (invano) di incontrare il pm Ilda Boccassini. 

L'emissario disse che lo mandava il governatore Roberto Formigoni, con cui aveva rapporti diretti. Dei cinque, il più vicino ai boss era l'allora assessore regionale Massimo Ponzoni (l'unico indagato, ma per altre corruzioni), però anche gli altri quattro erano citati nelle intercettazioni antimafia. 

Come faceva Lombardi a sapere così esattamente quali politici comparivano in atti giudiziari ancora top secret? Giudici come Giovanni Falcone hanno insegnato che la criminalità esiste in tutti i Paesi ed è contro lo Stato, ma in Italia la mafia è dentro lo Stato. Ora l'emergenza riguarda la 'ndrangheta, che è diventata l'organizzazione più ricca e potente. Esaminando solo le indagini più recenti sulle cosche in Lombardia, "l'Espresso" ha contato almeno 18 talpe: pubblici ufficiali che hanno svelato i segreti delle inchieste, ma sono rimasti in gran parte «non identificati», come denunciano i giudici sottolineando la «gravità », «pericolosità» ed «evidenza» dei loro tradimenti. Tra i tanti, c'è perfino un «militare in servizio alla Direzione distrettuale antimafia di Milano», ossia negli uffici della procura. Una talpa mai smascherata, ma attiva almeno fino al 2009, visto che a fine anno un mafioso del clan di Milano-Pioltello allertava i complici dicendo di aver «visto insieme a quello della Dda tutte le carte con i nostri nomi» e «le microspie in macchina». La certezza che la 'ndrangheta è riuscita a infiltrarsi perfino nella loro inchiesta, i pm milanesi la ricavano quando sentono gli stessi affiliati parlare di una seconda talpa, che a differenza della prima ha un nome: «Michele, il carabiniere di Rho che ci passava informazioni sulle intercettazioni in cambio della mancia». 

A Rho, il comune dell'Expo 2015, l'inchiesta travolge quattro carabinieri accusati di corruzione. L'appuntato Michele, al secolo Berlingieri, viene arrestato addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa. A incastrarlo è il video di un omicidio. Il 25 gennaio 2010 il figlio di un boss calabrese ammazza a colpi di pistola un giovane albanese in un bar. L'appuntato Michele, ignaro che i colleghi di Monza lo stanno filmando, entra nel locale, raccoglie i bossoli e li risistema per truccare la scena del delitto. Quando il killer passa la pistola a un complice, lo lascia uscire indisturbato. Poi stringe la mano al padre dell'assassino. 

Commento dei mafiosi: «Michele lo sbirro si è comportato benissimo». Dalle stesse indagini saltano fuori storie di blitz antidroga organizzati tra Milano e Varese per togliere di mezzo gli spacciatori concorrenti della 'ndrangheta. Ignoti funzionari dell'Anas che, quando la procura deve farsi autorizzare una videoripresa sulla statale, avvisano in diretta un boss, che annulla un summit con decine di mafiosi. Cittadini derubati di auto o furgoni che, seguendo il loro Gps, guidano una pattuglia da uno sfasciacarrozze, che non viene controllato, ma salvato. E quando i carabinieri onesti arrestano tutti, si scopre che proprio lì c'era «un arsenale di armi da guerra della 'ndrangheta». Nelle ordinanze del 2011 spunta perfino "suor talpa". 

Paolo Martino, boss reggino con ricchi interessi e molti amici tra politica e discoteche a Milano (il più famoso è Lele Mora), prima dell'arresto si ritrova una microspia in macchina. Al che si rivolge alla sorella, che è religiosa delle Paoline nonché vicedirettore sanitario dell'ospedale cattolico di Albano Laziale. «Informati dalla tua consorella », le dice furbescamente. Tre settimane dopo, la suora gli spiattella che c'è un pentito: «Ho sentito quella persona lì, mi ha detto di stare attenta... quel personaggio sta a cantà». Un aiuto alla mafia arriva pure dalle polizie municipali tanto amate dalla Lega: a Lurago d'Erba il comandante locale controlla le targhe delle auto dell'antimafia e avverte i boss (si spera ignorandone lo spessore criminale) riuniti nel loro maneggio. Intanto il direttore sanitario del carcere di Monza chiede voti e favori a un mafioso appena scarcerato (e poi ammazzato). 

Mentre un maresciallo «non identificato» avverte un padrino di Pioltello, in teoria ai domiciliari, di «non girare sulla sua Bmw», dove in effetti i carabinieri hanno piazzato una cimice. E non manca «un sottufficiale in servizio alla procura di Monza » che non denuncia due ricettatori, pur sentendosi dire che «nascondono armi» poi finite alla 'ndrangheta. Nei rapporti con le talpe, i mafiosi sembrano seguire un codice. 

Ogni boss protegge l'identità dei propri informatori: un tesoro da nascondere anche ai complici. Proprio le indagini di Milano e Reggio dimostrano però che la 'ndrangheta è un'organizzazione «unitaria e verticistica». Per cui la singola talpa rischia di favorire tutte la 'ndrine. E di manipolare anche le indagini più serie, come ha denunciato il procuratore Giuseppe Pignatone alla commissione Antimafia: il boss informato in anticipo ha il potere di decidere quali amici salvare e quali nemici far arrestare. Ora la scoperta di una rete di talpe così ramificata perfino a Milano rafforza i sospetti che la 'ndrangheta continui a beneficiare di un livello ancora segreto di complicità clamorose e inconfessabili. 

«La vicenda più inquietante», secondo i giudici antimafia, almeno per ora è l'arresto di Giovanni Zumbo, ex custode giudiziario di immobili e società sequestrate alla mafia calabrese, nonché collaboratore del Sismi dal 2004 al 2006, quando il servizio segreto militare era in mano al generale Nicolò Pollari e al suo uomo forte Marco Mancini. 

Nel marzo 2010 l'allora insospettabile Zumbo, accompagnato da un mafioso, Giovanni Ficara, viene intercettato mentre racconta a un superlatitante, Giuseppe Pelle, tutti i particolari della maxi-inchiesta ancora top secret di Milano e Reggio. Non lo fa «per soldi», ma perché, come spiega lui stesso ai boss, «ho fatto parte e faccio tuttora parte di un sistema molto vasto», formato da uomini dello Stato che in realtà sono «i peggiori criminali»: «Hanno fatto cose che solo a sentirle, a me viene freddo». 

Dopo l'arresto per mafia, Zumbo è stato rinviato a giudizio, con il boss Ficara e due complici, anche per le armi e l'esplosivo fatti ritrovare a Reggio nel gennaio 2010, nel giorno della visita del presidente della Repubblica. Un depistaggio spettacolare, inscenato per accreditarsi come confidente con i magistrati della nuova guardia. 

E rubare altre soffiate. Ordinandone la cattura, i giudici avvertono che Zumbo si era messo a disposizione dei mafiosi «perché incaricato da qualcuno, interessato a entrare in rapporto con i boss a costo di vanificare le più importanti indagini dei carabinieri contro la 'ndrangheta». 

Qualcuno «alla cui volontà non poteva sottrarsi». Il procuratore Pignatone lo ha definito «il puparo». 

Il suo nome resta un mistero: le indagini documentano solo che i due boss dei clan Pelle e Ficara- Latella «convocarono» la loro talpa, dopo aver avuto una prima soffiata da un agente segreto, ex militare, in contatto con altri tre 007, con un passato nel Ros. 

Dopo un anno di carcere duro, Zumbo ha parlato una sola volta con i magistrati, ripetendo lo sfogo che aveva confidato a un ufficiale dei carabinieri fin dal giorno dell'arresto: «I servizi mi avevano lasciato in pace per un po', ma all'inizio del 2010 sono tornati a inquietarmi per collaborare. Se mi pento io, succede un terremoto». «Dal boss Pelle, io sono stato mandato », aveva aggiunto Zumbo, che si rifiuta però di fare il nome del suo «puparo» in divisa. 

Tra Milano e Reggio non si escludono sorprese esplosive sui complici eccellenti della 'ndrangheta.

Nessun commento: