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martedì 26 gennaio 2010

NÉ CON GLI USA NÉ CON I TALIBAN. La terza via della società civile afghana tra guerra civile e un regime corrotto

 
di Giancarlo Bocchi *    Kabul
     Il più famoso simbolo della resistenza silenziosa all'ottuso e medioevale regime dei Taliban, non è più il passatempo spensierato d'una volta. Oggi gli aquiloni multicolori dei ragazzini afgani volano tristi e intimoriti nel cielo color palta di Kabul, infestato da macchine della morte: droni, elicotteri e bombardieri invisibili.    Dopo la fuga dei Taliban, le speranze di pace e di benessere, le prospettive di libertà e di democrazia, in questi lunghi 8 anni sono progressivamente svanite. E ormai azzerate. Lo stillicidio d'attacchi e di attentati dei Taliban e di stragi di civili da parte delle forze americane, di rapimenti, di violenze, di sopraffazioni su inermi e donne è senza fine.    Pesantemente blindata, Kabul appare oggi come il concentrato di tanti piccoli lager. A ogni angolo di strada c'è un fortilizio sovrastato da torrette, circondato da muri e filo spinato. Ci sono armati d'ogni genere: contractor, body guard, poliziotti, soldati. Ma tutto questo è impotente e inutile di fronte agli attacchi improvvisi del nemico. I passanti camminano veloci e circospetti e sfiorando i fortilizi pregano sottovoce che il necrologio che hanno pronto in tasca quel giorno   non venga usato. Giorni fa gruppi Taliban hanno attaccato la Banca centrale, la Telecon afgana, l'Hotel Serena e un supermarket, proprio nella munitissima area attorno al palazzo di Karzai.    A Kabul tira un aria pesante alla Saigon, ma forse nessuno lo ha ancora detto a Barack Obama. L'invio di 30mila nuovi soldati Usa, l'escalation con il coinvolgimento di altri governi occidentali - in prima fila l'Italia - basterà per vincere? Nessuno lo ha ancora chiesto al popolo afgano. Cosa pensano questi "invisibili", i dimenticati esponenti della società civile, i lavoratori, le persone perbene che lottano ogni giorno per un futuro migliore e per la democrazia?    "Americani? Taliban?"; Zoubeir, insegnante quarantenne di Jalalabad, magro come un chiodo, si tocca un occhio con la punta del dito e risponde senza esitazioni: "Noi li vediamo con un occhio solo!". Il simbolismo è semplice, ma vuole puntualizzare: "Americani e Taliban sono entrambi nemici dell'Afghanistan".   Sentenza senz'appello, condivisa da molti esponenti della società civile afgana che incontriamo in una casa della periferia della capitale. Sono arrivati a Kabul da ogni parte del paese per parlare delle violazioni dei diritti civili e delle strategie per opporsi al regime del presidente Amid Karzai. I discorsi di Zoubeir   , Fuad, Abdal, degli insegnanti, dei capi villaggio, degli agricoltori, degli studenti, d'età e d'etnia diverse, presenti nell'ampia e buia stanza riparata da pesanti tendaggi, sono illuminanti: l'opposizione democratica pare invisibile, ma è invece molto attiva e vigile in tutto il paese.    RIBELLIONE Un trentenne dal volto corroso dai patimenti, è aspro nel criticaregliamericaniperlestragidicivili,per il supporto a un governo infestato dai signori della guerra, per il sostegno a un presidente accusato di aver vinto le elezioni con brogli elettorali. Fuad fa una profezia: "Presto la popolazione si ribellerà in massa agli americani". E Abdal, capo villaggio dell'est, aggiunge con realismo: "Agli americani non importa nulla di riportare la democrazia in Afghanistan, vogliono solo colonizzarci, occupare le basi militari per i prossimi vent'anni per controllare i paesi confinanti e tutta l'Asia". Non è un timore infondato. È certamente allettante per la superpotenza controllare un paese strategico con frontiere con la Cina, l'Iran, il Pakistan, nelle vicinanze della Russia e dell'India e dell'immenso serbatoio di gas naturale del Turkmenistan.      Proprio il perdurare di questa "colonizzazione" mascherata, secondo gli esponenti della società civile, impedirebbe uno sviluppo democratico della nazione e contribuirebbe a consolidare il regime corrotto, il potere dei signori della guerra e dei trafficanti di droga.    Quali strategie per opporsi democraticamente? Nella semioscurità brillano occhi infiammati dalla voglia di agire e le voci si sovrappongono in un crescendo. I presentisonod'etniediverse(soprattuttotaigiki e pashtun), hanno vestiti e capelli di fogge diverse, i pakol marroni, fez bianchi, turbanti variopinti. Ma usano espressioni cariche della stessa partecipazione emotiva. Sono tormentati da un sospetto: pensano che gli americani pur di mantenere alcune basi strategiche nel paese e di evitare un nuovo Vietnam (o una nuova Somalia?), presto faranno un accordo tra i warlord governativi, i Taliban e i capi tribù, riportando il paese alla situazione del 1996.      Non hanno torto ad essere sospettosi. Di recente il vicepresidente americano Joe Biden ha cercato di congelare il nuovo intervento militare, prospettando in alternativa di affidare il paese ai capi tribali (e quindi ai Taliban del mullah Omar) per uscire da una guerra senza prospettive. Anche chi 14 anni fa accettò il fardello Taliban per far cessare la guerra tra i warlord, oggi si ribella all'idea del ritorno dei Taliban. Così questa variegata opposizione   democratica ha un solo slogan, una sola parola d'ordine, un solo giuramento: "Né con gli americani né con i Taliban".    ARMI E POLITICA Molti dei presenti alla riunione semiclandestina hanno combattuto i sovietici, senza per altro far parte dei mujaheddin legati al radicalismo religioso, e a quanto dicono, conoscono bene le strategie militari e l'uso delle armi. Ma almeno per ora preferiscono una soluzione politica a una sollevazione contro i due occupanti, ossia americani e Taliban.    Si alza a parlare un mullah "democratico" dalvoltoaffilatoedallosguardodeciso.Fa un discorso decisamente "laico". Per chi frequenta questi luoghi dagli anni '90 il dubbio è un dovere. Ci chiediamo: se ci fosse qualche doppiogiochista talebano nascosto tra questi oppositori democratici? Se domani gli americani se ne andassero, il paese non rischierebbe di finire definitivamente in mano ai Taliban? Ci risponde un coro di voci risentite. Ma è Abgal, un maestro di scuola quarantenne dagli occhi chiarissimi e intelligenti, ad imporre il silenzio con una risposta fulminante: "Quando la volpe americana se ne andrà ai cani Taliban penseremo noi". Sembra solo una battuta su una strategia   difficile da attuare in un paese pieno d'armi, di warlord e di trafficanti, ma i presenti hanno una spiegazione pronta. Dicono che i Taloban e i loro alleati (trafficanti di droga e islamisti stranieri) ricevono cospicui aiuti da paesi, anche confinanti, per una guerra per procura. Molti paesi hanno l'interesse a far affondare gli americani nelle sabbie mobili afgane.    E se gli americani se ne andassero? La risposta dei partecipanti alla riunione è corale: "I Taliban non riceverebbero più aiuti stranieri e a questi cani penseremmo noi". Ma c'è un esponente di Farah, città del ovest ai confini con l'Iran, che ha visto altro: "I Taliban sono aiutati anche dai militari stranieri dell'Isaf. L'ho visto con i miei occhi". Non ha prove filmate o documentali per queste gravi accuse, ma le voci che alcuni contingenti internazionali paghino il "pizzo" ai Taliban per avere vita facile circola da tempo e si sarebbero così finanziati per milioni di dollari.    Ci spostiamo verso un'altra casa dell'opposizione semiclandestina. Il freddo a Kabul è pungente e un pulviscolo pesante, misto di sabbia e di smog strozza la gola. La Parigi dell'Asia degli anni '70, il capolinea cosmopolita dei magic bus e della cultura alternativa, affonda oggi nel fango   . Non solo quello delle strade dissestate. L'intero paese affonda nella corruzione, nella sopraffazione, nei traffici illegali legati alla produzione dell'80 % dell'eroina che si consuma nel mondo.    Per far dimenticare i suoi chiacchierati parenti ed affari, il presidente Karzai ha costituito un comitato per combattere la corruzione: primo atto la sostituzione del sindaco di Kabul, Mir Abdul Ahad Sahibi, condannato in primo grado a 4 anni di carcere per malversazione   di fondi. Un pesce piccolo, senza appoggi, perché i pesci grossi sono difesi dallo stesso Karzai.    Violenze e torture sono fatti ordinari. Passiamo davanti alla guest house Assa: in un seminterrato rimodernato c'è una palestra dove 8 anni fa i talebani facevano orge e violentavano donne e torturavano gli oppositori. È cambiato qualcosa da allora?    La risposta la troviamo in una casa della periferia ovest dove una famiglia vuole urlare l'ingiustizia subita. Abitavano nel distretto di Sangcharak nel centro nord, ma sono dovuti scappare a Kabul dopo che Agi Rahimi, warlord locale, legato al discusso vicepresidente Qasin Fahim, ha rapito e fatto violentare per due volte Samea, 16 anni. La madre Rozigul, che dimostra il doppio dei suoi 38 anni riesce a stento a raccontare la tragedia. Interviene anche il fratello Najibullah, 18 anni, che sbatte sul pavimento della povera casa, ultimo rifugio alle mire del warlord, un fascicolo di carte del tribunale, mentre Samea   e tre fratellini piangono. La giustizia in Afganistan è senza dubbio una delle più arbitrarie al mondo, un misto di corruzione e abuso di potere. All'interno del codicepenaleafgano,chealTribunalediKabul viene arditamente definito come ispirato   ai "codici napoleonici", è radicata la sharia, la legge islamica. La riverniciatura pagata a caro prezzo dal governo italiano degli uffici giudiziari afgani, con l'intervento massiccio di discusse ong italiane e con uno strascico di gravi fatti ancora da chiarire, non è servita a riportare un po' di giustizia. È solo costata dei gran soldi. Se poi un giudice dà ragione a un poveraccio che si oppone ad un warlod, Karzai in persona rimette a posto le cose. È il caso della famiglia di Samea. Il padre è in galera, mentre Agi Rahim, il mandante della violenza, spadroneggia nel distretto di Sangcharak.    Per arrivare in un'altra casa della resistenza civile passiamo di fronte al Rayon, il moderno quartiere costruito dai sovietici negli anni '80: oggi case sfigurate dalla guerra e dal degrado. La nostra guida, un giovane della diaspora cresciuto nei campi profughi in Pakistan, commenta: "I sovietici almeno costruirono case, strade, edifici pubblici. Gli americani sono venuti solo a distruggere e a occupare".      I SACCHEGGIATORI Attraversiamo Shirpur, il quartiere dei warlord e degli approfittatori di guerra, una "Parioli" di Kabul, posta tra la mitica chicken street degli hippies anni '70 e Shar en Haw, la città nuova, cuore della Kabul moderna. Il nome del sobborgo significa "figlio del leone", ma gli abitanti di Kabul lo chiamano con scherno Shirchoor,"saccheggiato dai leoni". Le sontuose abitazioni in mattoni, alluminio e vetri specchiati vengono definite con un neologismo afgano "narco-tecture", per l'architettura volgare cementata da droga e sangue. Il 90% dei residenti è la causa di gran parte dei problemi del paese. Tra milioni di poveri poche decine di persone si arricchiscono ed esportano illegalmente milioni di dollari che servirebbero alla rinascita del paese. Incontriamo un gruppo di bambini macilenti tra le macerie dell'antico palazzo presidenziale di Amanullah Khan. Sono armati di pistole giocattolo e di una fame insaziabile. Cosa vorrebbero mangiare? Cirispondono:"Tèepane".Nonconosco altro.      Inun'altroedificiodellaresistenzademocratica si affacciano ballatoi affollati di persone impegnate in animate discussioni. Hamayun,studenteuniversitariodi22anni,cimostra delle fotocopie con immagini a colori di una strage commessa dagli aerei Usa mesi fa nel villaggio di Grana nel distretto di Balabolook: poveri corpi disintegrati, gruppi di giovinetti e bambini piccoli riuniti dalla morte in un ultimo abbraccio; poveri essere umani dimenticati dalla storia e dai mass media; "Ecco i cosidetti Taliban: bambini! Non è forse un crimine di guerra questo?", dice. Ataullah, 36 anni, scampato a una strage dei TalibanvicinoaBamiyan,raccontaletorture che inflissero a decine d'innocenti.    I testimoni di questi crimini e di queste ingiustizie urlano che non si arrenderano più alla violenza statunitense e Taliban e che non accetteranno più le leggi liberticide di Karzai. Anche i parlamentari, che in questi anni hanno obbedito ai diktat di Karzai e dei warlod hanno detto basta: il 2 gennaio non hanno ratificato la nomina di 13 ministri sui 24 del nuovo governo. Ciò è accaduto mentre due dei personaggi percepiti dall'opinione pubblica come autori di crimini di guerra, come il tajiko Qasin Fahim e l'hazara Karin Khalili, sono ancora gli attuali due vice   presidenti. La settimana scorsa i parlamentari hanno dato un altro schiaffo politico, ratificando la nomina solo di 7 dei nuovi 17 candidati ministri del governo. Ulteriore segnale che molte cose stanno forse cambiando. Per ora gli afgani democratici non criticano o non attaccano le forze internazionali non Usa; forse un buon segnale per trovare una strada diversa da quella finora tracciata dagli americani. Secondo gli esponenti della società civile questa guerra gli Usa non la possono vincere. Anzi, la guerra per riportare democrazia, legalità, giustizia l'hanno già persa da tempo.    * Regista e autore di documentari  
 
  Sopra il supermercato di Kabul dopo l'attacco dei Taliban. Sotto, una seduta del Parlamento afgano (FOTO ANSA)

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